martedì 29 gennaio 2013

SM 3522 -- La lunga linea bianca -- 2013

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Ricordate il film di John Ford del 1955 “The long gray line”, tradotto in italiano come “La lunga linea grigia” ? La lunga fila grigia era quella degli allievi dell’accademia militare americana di West Point e a me è sempre venuto in mente di far parte anch’io di una “lunga fila bianca” di chimici in camice bianco, quelli che mi hanno preceduto, persone che in parte ho conosciuto, di cui ho sentito parlare, i cui nomi ho trovato associati a qualche reazione o apparecchiatura o libro. Credo che quella del chimico sia una delle poche professione in cui “l’arte” viene trasferito attraverso i decenni mediante l’insegnamento diretto o quello indiretto offerto dai libri e dalle riviste.

domenica 27 gennaio 2013

La chimica dello sterminio

La Gazzetta del Mezzogiorno, 2 febbraio 1993 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La ricomparsa in superficie di un movimento nazista, che manifesta oggi la sua ideologia di violenza in forma rumorosa e visibile, induce a chiedersi in che cosa esso possa attrarre soprattutto dei giovani. Chi incanta oggi i ragazzi con un sogno neo-"nazista", capace di spingerli all'assalto di ebrei, immigrati, persone di colore, presenta l'epoca hitleriana come il periodo del trionfo della tecnica e dell'ordine, della moneta stabile e di riforme sociali in cui anche i lavoratori "stavano bene", il periodo di un "socialismo" realizzato all'insegna di una "nazione" forte, efficiente, organizzata, bianca, ariana. In questo quadro riesce facile aizzare i naziskin contro le persone appartenenti ai gruppi che allora si opponevano od erano estranei al grande disegno di un "nuovo ordine": ebrei, comunisti, zingari, omosessuali, neri, testimoni di Geova, diversi.

In realtà il nazionalsocialismo hitleriano era una forma di capitalismo nel quale gli imprenditori potevano permettersi di fare "star bene" i lavoratori, tedeschi e "ariani", "grazie" sia ai profitti assicurati dalle protezioni accordate dal governo ad una produzione, principalmente di carattere militare, ben remunerata, sia, negli anni quaranta, alla disponibilita' di mano d'opera schiava a prezzo zero, costituita dai "nemici": deportati, ebrei, prigionieri di guerra, abitanti dei territori occupati.

martedì 22 gennaio 2013

Chimici e parlamento

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 22 gennaio 2013 

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it 

Migliaia di persone sono candidate alle prossime elezioni per le due camere del Parlamento nazionale e per alcuni parlamenti regionali. E’ bello che così tante persone desiderino mettere le proprie competenze al servizio dei più nobili compiti della vita civile: scrivere ed approvare le leggi, specialmente quelle che stabiliscono come va speso il pubblico denaro, esercitare con interpellanze e interrogazioni il controllo sul comportamento del governo e delle pubbliche amministrazioni.

I candidati e gli eletti mettono a disposizione del paese e degli elettori le competenze e le esperienze della loro vita professionale: avvocati e operai, disabili e atleti, medici e scrittori, attori e agricoltori, professori e artigiani. E chimici ? Quanti chimici sono stati inseriti nelle liste elettorali, quanti verranno eletti ? Eppure i chimici hanno esperienze culturali e professionali, tratte dal lavoro nelle Università, nelle fabbriche, nei laboratori statali e privati, e avrebbero tante cose da dire in un Parlamento e anche nelle.assemblee delle amministrazioni locali.

Il Parlamento deve preparare, discutere e approvare un gran numero di leggi che hanno moltissimi aspetti chimici: si pensi all’adeguamento delle norme italiane alle direttive e ai regolamenti europei, ai rapporti dell’Italia con organismi internazionali e con i problemi del commercio internazionale. Se si legge la Gazzetta Ufficiale della Repubblica, che riporta e rende pubblico il risultato di tutte le norme approvate dal Parlamento, si vede che almeno un quinto di tali norme riguarda aspetti chimici: si parla di qualità della benzina, di prezzi dei carburanti, della composizione dei detersivi, della qualità dell’alluminio adatto per la fabbricazione delle pentole, delle sostanze ammesse o vietate come additivi dei cosmetici o degli alimenti o nei prodotti medicinali, dei concimi e pesticidi usati in agricoltura, dei pericoli a cui sono esposti i lavoratori quando maneggiano solventi o esplosivi, delle precauzioni necessarie nel trasporto delle sostanze corrosive o infiammabili, dei processi per diminuire l’inquinamento e per lo smaltimento dei rifiuti, eccetera. Sto parlando di norme che regolano l’economia, la quale a sua volta è basata sul commercio di “cose chimiche”.

L’importanza dei chimici in Parlamento e nelle assemblee elettive è stata riconosciuta in tutti i 150 anni della storia politica italiana. Alla nascita del regno d’Italia esisteva una Camera composta di deputati eletti (peraltro per molti decenni soltanto da una piccola parte della popolazione ed erano escluse le donne), provenienti in gran parte dalle classi agiate e dalle professioni liberali. Il Senato era invece costituito da persone nominate dal re; fra queste figurarono molti chimici come Stanislao Cannizzaro, Giacomo Ciamician (che é stato anche consigliere comunale a Bologna), Emanuele Paternò, dei quali si ricordano gli interventi nella discussione di problemi chimici relativi alle norme doganali, alla qualità del fosforo da impiegare nei fiammiferi, all’igiene nelle fabbriche, alle leggi sanitarie, eccetera.

Tutto questo è continuato fino al fascismo quando il Parlamento elettivo è stato chiuso e sostituito, per alcuni anni, dalla Camera dei fasci e delle corporazioni i cui componenti erano nominati dal governo fascista, e nella quale figurarono vari chimici, spesso espressioni dei gruppi di interessi, delle loro corporazioni, il che non escludeva che si occupassero di problemi della chimica e dell’industria. Si possono ricordare Giuseppe Bruni, Luigi Cambi, Felice De Carli, Pier Giovanni Garoglio (studioso di oli e grassi), Angelo Tarchi, Guido Donegani che, pur essendo laureato in ingegneria, era il presidente della più grande industria chimica italiana ed era già stato eletto nella Camera dei Deputati prima del fascismo. Nel periodo fascista il Senato praticamente non contava niente.

La vita è rinata dopo la Liberazione: nell’assemblea costituente fu eletto il chimico Michele Giua che era stato incarcerato molti anni per opposizione al fascismo e che fu rieletto varie volte al Senato in cui intervenne spesso sui problemi di sua competenza. Per quanto ne so negli anni successivi la presenza dei chimici è stata molto scarsa, da contare sulle dita delle mani. Eppure sono stati gli anni del vivace dibattito sul contenuto di fosforo dei detersivi, sui pesticidi, sulle caratteristiche dell’acqua potabile, sul contenuto di piombo delle benzine; sull’inquinamento delle falde idriche provocato dalle discariche di rifiuti tossici; furono gli anni dell’incidente al reattore di Chernobil e della contaminazione radioattiva degli alimenti, degli incidenti nelle fabbriche chimiche dell’ACNA in Liguria, della Farmoplant in Toscana, di Marghera, nel Veneto. E non si parla di chimica anche adesso, anche in Puglia, con l’inquinamento da diossine, PCB, benzopirene, con le emissioni di mercurio dalle centrali termoelettriche ? Sono certo che i chimici, se saranno eletti, potranno dare un contribuito, proprio in quanto chimici, al miglioramento delle leggi da cui dipendono l’ambiente, l’economia, il lavoro, cioè la vita.

lunedì 14 gennaio 2013

SM 2863a -- Breve storia dei fiammiferi -- 2007

Chimica News, n. 19, settembre 2007 --- Inquinamento, 49, (96), settembre 2007

Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

La storia dei fiammiferi è lunga e complicata, fatta di piccole e grandi invenzioni che davano vita spesso a piccole e grandi imprese industriali. Questa storia comincia nel 1827 con l'invenzione, da parte dell'inglese John Walker, del fiammifero a sfregamento (un bastoncino di legno con una capoccia contenente una miscela di solfuro di antimonio e di clorato di potassio), seguita, tre anni dopo, dal perfezionamento, dovuto a Sauria, Kammerer, e al geniale inventore ebreo di Fossano, in Piemonte, Sansone Valobra, consistente nella sostituzione del solfuro di antimonio con una miscela di zolfo e fosforo bianco. Valobra impiantò a Napoli la prima fabbrica di fiammiferi italiana e inventò, successivamente, anche i fiammiferi con lo stelo di cera, i “cerini”. La storia finisce nel 1994 con la chiusura, per riduzione del mercato, dell'ultima grande fabbrica inglese di fiammiferi, la famosa Bryant & May di Liverpool.

Di certo l'invenzione del fiammifero ha avuto conseguenze rivoluzionarie e liberatorie: ciascun individuo poteva accendere lampade e fuochi senza dover dipendere da altri, portando con se la fiamma, come ben dice il nome italiano del prezioso bastoncino di legno. Con la produzione dei fiammiferi nacque inoltre un importante segmento del "sistema di fabbrica" ottocentesco italiano, con i relativi problemi, primo fra tutti lo sfruttamento dei lavoratori, donne, uomini e ragazzi, particolarmente grave in un'industria che trattava sostanze altamente pericolose e tossiche come il fosforo bianco e lo stesso zolfo.

Al lettore curioso raccomando la lettura del libro della prof. Nicoletta Nicolini, dell’Università di Roma, intitolato: “Il pane attossicato. Storia dell’industria dei fiammiferi in Italia”, pubblicato da una difficilmente accessibile “Documentazione Scientifica Editrice”, di Bologna (non c’è neanche l’indirizzo), uno degli innumerevoli libri sommersi in cui finisce tanta parte della pur preziosa ricerca anche storico-scientifica del nostro paese.

I primi fiammiferi industriali erano costituiti da bacchettine di legno morbido con una delle estremità ricoperta, come si accennava prima, di zolfo e fosforo bianco che si accendeva per sfregamento su una superficie ruvida. Il velenoso fosforo bianco veniva assorbito dagli operai, per lo più ragazze e bambini, durante la lavorazione consistente nell’immersione dei bastoncini in una miscela liquida contenente il fosforo.

Negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento, quando la struttura delle manifatture di fiammiferi era arretrata e artigianale, medici generosi e attenti alla salute pubblica come Bellini e Zambelli avevano scritto e denunciato la pericolosità dell'uso del fosforo bianco nelle fabbriche dei fiammiferi e nei fiammiferi che arrivavano al pubblico, ma potenti interessi finanziari avevano spiegato per decenni al potere politico che sarebbe stato altamente lesivo degli interessi italiani sostituire il fosforo bianco col fosforo rosso, che pure, in altri paesi, era prodotto e usato per i fiammiferi più "sicuri". La scusa è sempre la stessa: l’impiego nel ciclo produttivo del fosforo rosso, più costoso, avrebbe danneggiato --- sostenevano gli imprenditori --- gli stessi operai perché sarebbero aumentati i costi di produzione e molte fabbriche sarebbero state costrette a licenziare molti dipendenti. Gli stessi interessi riuscirono ad evitare che le fabbriche di fiammiferi fossero incluse fra le industrie “insalubri”, da localizzare nelle periferie, quando nel 1887-89 fu emanata la prima legge italiana sulla tutela dell’igiene e sanità. Portavoce degli interessi economici fu, negli anni settanta e ottanta dell’Ottocento, il grande chimico Emanuele Paternò, cattedratico, massone, senatore, presidente dei laboratori e delle Commissioni sanitarie che decidevano o davano consigli al governo.

Davanti all'innegabile pericolosità dei fiammiferi al fosforo bianco i paesi industriali erano arrivati, all’inizio del Novecento, ad un accordo internazionale che, difendendo la salute, ponesse, nello stesso tempo, sullo stesso piano di concorrenza, i molti produttori di fiammiferi. Alla convenzione di Berna del 1906 aderì anche l’Italia, ma l’adeguamento dell’Italia ai relativi impegni venne rimandata fino al luglio 1915; il “provvidenziale” (per gli industriali dei fiammiferi) scoppio della prima guerra mondiale indusse il governo a rimandare a tempi migliori una legge così “secondaria”, come quella da cui dipendeva la salute di migliaia di lavoratori e di milioni di compratori di fiammiferi ! E poiché c’era sempre qualcosa da fare, più importante, la legge che vietava l'uso nei fiammiferi del fosforo bianco, entrò in vigore nel 1924 (diciotto anni dopo la convenzione di Berna).

Per un intero secolo i fiammiferi sono stati prodotti in centinaia di fabbrichette, sparse nel territorio italiano, con accesso ad un limitato mercato locale, escluse dalle grandi correnti di importazione o esportazione. La storia e le statistiche delle fabbriche dei fiammiferi offre uno spaccato, piccolo, ma molto significativo, della transizione da una fase artigianale di manifatture tecnicamente e commercialmente arretrate, alla formazione di gruppi più grandi di fabbricanti di fiammiferi, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, gli imprenditori di maggiori dimensioni ampliano i propri interessi, dalla seta, ai cotonifici, alla meccanica, all'industria chimica, alla fabbricazione dei fiammiferi, appunto, ai giornali, alle banche, e possono, con un peso adeguato, con le giuste amicizie di logge e salotti, trattare col governo per ottenere facilitazioni, dazi contro le importazioni, protezioni, favori.

I piccoli produttori cercarono di consorziarsi contro i grandi gruppi, ottennero, in un lungo scontro negli anni 1894-1898, qualche ascolto da qualche distratto parlamentare, ma furono gradualmente esclusi dalla produzione e dal commercio dei fiammiferi. Le cose peggiorarono con l’introduzione, nel dicembre 1894, di una “tassa” sui fiammiferi, resa urgentemente necessaria per sanare il deficit del bilancio che si stava ingrandendo a causa della costosa guerra d’Africa. Contro tale tassa intervennero gli industriali che minacciarono la chiusura delle fabbriche e i lavoratori attuarono uno sciopero.

Il Parlamento non poté approvare o bocciare il decreto fiscale perché il re lo tenne chiuso nel cassetto fino alle elezioni del maggio 1895, vinte da Crispi. La prima reazione violenta alla tassa sui fiammiferi si era intanto calmata e il Parlamento discusse, nel luglio e agosto, il decreto legge fiscale; il resoconto del dibattito parlamentare --- dettagliatamente analizzato nel libro della prof. Nicolini --- è interessante non tanto per le sue conclusioni (la tassa sui fiammiferi c'è e resta), ma perché consente di dare uno sguardo allo scontro fra i parlamentari "rappresentanti" dei vari gruppi di pressione.

Intanto si verificano grandi eventi: in concomitanza col dibattito sulle tasse, le truppe italiane vittoriose annettono il Tigrè alla colonia Eritrea: gran rigurgito di orgoglio nazionale e nuove spese per la guerra. L'entusiasmo dura poco: il 7 dicembre 1895 c'è la sconfitta dell'Amba  Alagi; il 22 gennaio 1896 viene abbandonata Macallè e il 1 marzo gli italiani sono sconfitti ad Adua: nuove spese. La  sventurata guerra d'Africa si conclude alla fine del 1896 con una pace con l'Abissinia, lasciandosi alle spalle dolori, lutti, lacerazioni sociali e altre voragini nel bilancio statale.

I piccoli artigiani produttori di fiammiferi tentano ancora di consorziarsi per chiedere al governo una diminuzione della tassa sui fiammiferi, ma il governo ha disperato bisogno di altri soldi da rastrellare con altre tasse: nel maggio 1898 reprime nel sangue, con i cannoni di Bava Beccaris, la protesta dei lavoratori di Milano contro il caro-pane; per quanto riguarda i fiammiferi non trova di meglio, nel dicembre del 1898, che aumentare ulteriormente la già contestatissima tassa.

Questa volta scatta la serrata dei produttori. La straordinaria ricostruzione del dibattito parlamentare, degli scioperi e delle serrate attraverso i verbali delle sedute, i resoconti della stampa e i rapporti di polizia, la storia dei tentativi per far nascere il "consorzio" fra piccoli produttori di fiammiferi, o il cartello dei grandi produttori uniti nella società "Fabbriche riunite", offrono un quadro ben preciso della società italiana all'alba del ventesimo secolo,  dei suoi vizi, corruzioni e stupidità. Le grandi avventure internazionali, la concorrenza e lo scontro fra giganti finanziari e industriali finiscono così per influenzare la vita e il destino di piccoli inconsapevoli fiammiferai siciliani o marchigiani o piemontesi, protagonisti della "storia minore", ai quali la tassa sui fiammiferi fa aumentare di qualche lira i costi di produzione e fa diminuire gli utili.

La lettura del libro offre, infine, l'occasione per riconoscere che la crisi di questa prima industrializzazione italiana, abituata ad invocare il protezionismo governativo attraverso dazi sulle importazioni e leggi compiacenti, anche se danneggiavano la salute dei cittadini, ha le  sue radici nell'ignoranza, oltre che nell'avidità. L'autrice mette bene in evidenza l'arretratezza, nell’Ottocento, degli studi di chimica pura e di chimica industriale, la povertà di accademie e centri di cultura tecnico-scientifica, che già fiorivano in Francia, Inghilterra, Germania, Austria, Russia. L'avidità e l'ignoranza sono state le vere cause delle morti nelle fabbriche e dei fallimenti industriali.

Il prezzo che una società paga per questa povertà di cultura imprenditoriale e tecnica è il fallimento delle imprese. Nel caso dei fiammiferi la miopia degli imprenditori fino ai primi decenni del Novecento portò al ritardo nelle innovazioni tecniche che si stavano diffondendo nel mondo dove il fosforo rosso sostituì il fosforo bianco, i vecchi fiammiferi furono sostituiti da quelli di sicurezza, o “svedesi” nei quali la capocchia del fiammifero è (ormai si può dire, era) formata da una miscela di sostanze ossidanti, come clorato di potassio, zolfo e resina e si accendeva per sfregamento su una listarella di carta ruvida incollata alle pareti esterne delle scatole e contenente una pasta di fosforo rosso e trisolfuro di antimonio.

L'apparentemente limitata storia della produzione dei fiammiferi in Italia, fino alla prima metà del Novecento, ha così una sua morale di carattere generale e valida ancora oggi. Produrre merci è sempre stata un'operazione complicata e può essere svolta soltanto se si diffonde una cultura delle merci e dei processi produttivi. E' la conoscenza che dissolve i fantasmi oscuri della paura: la paura delle popolazioni verso la "fabbrica" che non si sa che cosa produce, quali fumi butta nell'aria, la paura dei lavoratori che non sanno che cosa maneggiano e quali pericoli affrontano, la paura degli imprenditori verso qualsiasi richiesta di riforme e di progresso.

Se dunque gli imprenditori vogliono continuare a produrre merci --- merci che occorrono, che soddisfano bisogni umani, che spesso sono liberatorie, come sono stati liberatorii i fiammiferi  nel secolo e mezzo passato --- devono aumentare la propria cultura e devono imparare a parlare al pubblico e ai lavoratori, non col linguaggio furbesco della pubblicità, ma con quello di una cultura industriale, capace anche di essere orgogliosa, quando occorre, della propria bravura e intraprendenza.

Questa cultura del fare, del produrre, deve entrare anche nelle aule universitarie, non per preparare fedeli e silenziosi servitori del potere finanziario, ma per diffondere capacità critica, senso del servizio alla collettività, sia nella pubblica amministrazione, sia nelle fabbriche. La stessa cultura dovrebbe spingere i legislatori ad essere meno pavidi e prudenti nello scrivere le leggi da cui dipendono la salute e la sicurezza dei cittadini e spingere i pubblici amministratori ad essere un po' più coraggiosi nel farle rispettare.